Nella vita apparentemente “piatta” di un tecnico delle vernici ci sono momenti di “thriller”
Si stava costruendo il nuovo stabilimento, ma il reparto resine ed il laboratorio erano gi funzionanti (due reattori), mentre l’impresa terminava la costruzione degli altri reparti e dei magazzini. Le resine venivano prodotte ed inviate in cisterne in “sede” per l’ulteriore trasformazione. Data la situazione provvisoria i reattori venivano alimentati “a fusti” anche per le materie prime liquide. Era l’inizio del “boom” del poliestere e quel mattino mi arriv in laboratorio la telefonata del Sig. Turco ” dutur el vegna subit alle resine” e mise gi . Non “buongiorno”, non “quando ha tempo”, non “pu venire perch “. Il sig. Turco non era il capoturno, era il factotum della manutenzione: meno di 60 chili di omino su un metro e 60 di agilit e di iniziativa (figuratevi un Don Lurio intelligente). Faceva l’elettricista, il meccanico ed altre cose ed evidentemente non poteva saper nulla di reazioni chimiche, ma aveva intuito che il problema c’era ed era pesante. La resina era un normalissimo poliestere (ftalica, maleica, glicol propilenico) la cui condotta di reazione prevedeva, come sempre, un graduale aumento di temperatura dai 160 ai 210 gradi (dieci gradi ora). In quel caso invece il grafico del termografo denunciava un brusco aumento di temperatura a partire dai 170. Il capoturno aveva gi sospeso il riscaldamento e stava raffreddando la massa col serpentino interno, ma la temperatura non accennava a calare… anzi aumentava, meno, ma aumentava ugualmente! Guardai la resina dalla specola illuminata: la distillazione era fortissima, l’agitatore funzionava a dovere, ma il pettine del rompischiuma era ormai sommerso dalla schiuma stessa. Feci prelevare un campione. Non c’erano dubbi: la viscosit era anormale e stava iniziando una gelificazione. Ora, dal punto di vista teorico impossibile una gelificazione di una molecola lineare quale si forma fra i componenti del poliestere in cottura ed anche impossibile una tale esotermia in una reazione di esterificazione che, al contrario richiede calorie. Il Sig. Turco disse: “alura, dutur, se fem?” (allora, dottore cosa facciamo?) Volli vedere subito in cortile i sacchi e i fusti vuoti delle materie prime relative alla carica, perch era evidente che l’unico evento possibile era un errore di materie prime. Mi accompagn l’operaio che li aveva maneggiati. Era un p pallido e confuso. ” disen che la culpa l’mia ma, per mi, quei fust in tutt istess…”. Infatti i fusti vuoti di glicole propilenico erano tutti l in fila, tutti belli verniciati rosso ruggine, tutti uguali, con il nostro codice interno scritto in vernice nera sulle due fiancate: peccato che alcuni di essi non erano proprio “tutt istess”, alcuni (due o tre) avevano il codice dello stirolo! Quando vidi i codici dello stirolo mi vennero i brividi (questa la vera strizza!). Non lo rimproverai; in questi casi completamente inutile e scorretto prendersela con chi ha commesso un errore e lo ammette: la cosa pi importante sapere dov’e qual l’errore e in questo caso non era improbabile che quel pover’uomo fosse anche, non per colpa sua, analfabeta! Normalmente la diluizione in stirolo avviene a resina finita raffreddata a 110 gradi, scaricandola nel sottostante diluitore, opportunamente stabilizzata con inibitori… Ora penso che sappiate che cosa succede quando anche solo due etti di poliestere catalizzano in una lattina. Ecco, adesso pensate che la vostra lattina, invece di due etti, siano otto tonnellate. Otto tonnellate a 190 gradi che stanno catalizzando nel reattore. Era un fatto che non mi era mai accaduto, ma era evidente che ad una certa temperatura si era innescata la reazione di reticolazione dello stirolo con la resina, reazione che nessuno avrebbe mai potuto fermare e che quindi il destino di quella cottura era trasformarsi in una massa solida vetrosa, dopo aver prodotto tutte le sue maledette calorie. Quando spiegai al signor Turco l’immediato futuro che ci attendeva, lui mi controspieg il futuro pi remoto dello smontare tutto l’impianto di distillazione, motore e riduttore dell’agitatore, aprire il coperchio del reattore, metterci dentro per giorni e giorni due uomini col martello pneumatico per svuotarlo, lavarlo con soda e poi rimontare il tutto “…. dutur, ghe voer un mes! …Sem minga matt! (…ci vuole un mese… non saremo mica matti !) Aveva ragione, bisognava scaricare la resina dal reattore: da qualsiasi parte, ma toglierla di l dentro… al pi presto! Nel diluitore era assurdo: l’avremmo incastrato, il che era quasi peggio. Non avevo tanti fusti a coperchio per scaricarla e contenerla… e bisognava anche fare in fretta: la gelificazione proseguiva… L’agitatore lavorava ancora e la resina “girava”, quindi feci introdurre non so quanti chili di inibitore, se non altro sperando di rallentare la reazione la temperatura continuava lentamente a salire nella massa cosi compatta. Quando sentii il canto del riduttore di giri che mi annunciava l’attrito dei suoi ingranaggi, fermai il motore e decisi di scaricare tutto sul pavimento del seminterrato in cui sporgeva, dall’alto, il reattore. In fin dei conti il seminterrato stesso costituiva una vera e propria “zona di contenimento” qual oggi previsto per legge in qualsiasi reparto di stoccaggi di liquidi e dalle finestre a livello terra potevo anche sommergere d’acqua la “colata”(*)
Bastava disconnettere la tubazione dal reattore al diluitore, mettere un fusto aperto sotto il reattore per avere il tempo di andarsene di l , aprire la valvola di fondo e uscire dal seminterrato. La valvola di fondo del reattore era una valvola a fungo; il concetto identico alle valvole che avete in bagno sul fondo della vasca o del lavabo: la valvola non apre un buco diretto, ma costringe il liquido ad un aggiramento intorno al piattello se il liquido un liquido! …Ma se il liquido una gelatina? Accadde quello che temevo: il reattore defec stiticamente mezzo fusto di schifezza fumante e poi la valvola si intas ! Turco: “…alura, dutur, adess se fem?” Io mi ero arreso: non c’era pi niente da fare… Gli dissi “senta Turco, per poterla scaricare bisognerebbe fargli un buco nel culo grosso cos (e feci quel gestaccio osceno coi pollici e gli indici, pi che altro per dargli un’idea delle dimensioni e per dimostrargli l’impossibilità di farlo). Turco stette a guardare per un p il fondo del reattore poi mi disse rifacendomi il gestaccio: ” Van ben quaranta ghei?” (vanno bene quaranta centimetri?) Si, penso proprio di s (…ma cosa diavolo aveva in mente ?!). “Alura se peu fa” (allora si pu fare ) e mi spieg come…. L’idea non era nè folle nè stupida: era solo ingegnosa e coraggiosa. Gli dissi di farlo… Si trattava “solo” di sbullonare la flangia di fondo del reattore (quella che contiene la valvola di scarico) creando quindi una apertura circolare di circa 40 centimetri di diametro ma evidentemente nessuno poteva stare l sotto a farlo! Mentre Turco lavorava alla sua idea, andai a telefonare “in sede”, per avvertire che il giorno dopo non sarebbe arrivata la resina e naturalmente mi risposero che “pazienza se non recuperabile (avevano fatto immediatamente i conti! ), ma la ricarichi subito perch siamo pieni di ordini” (benedetta ignoranza!) Inutile e inopportuno in quel momento spiegare tutta la situazione! Meglio una battuta : “stia tranquillo…se non scoppia tutto la ricarico subito!”) Quando tornai gi Turco aveva gi finito. Tre paletti di legno di lunghezza giusta (2 metri e 1/2) puntellavano la flangia di fondo, incastrati in basso sul pavimento di cemento come gli spigoli di una piramide. Alla base di due di essi erano gi legate due corde che arrivavano fino alla scala di accesso esterna (a circa 5 metri) che dava sul piazzale. Bastava quindi svitare una ventina di bulloni, uscire dal seminterrato, dare uno strattone alle corde per scalzare i paletti e far crollare tutto pur restando fuori dall’ambiente. Turco era l che guardava. Il lavoro era professionale, molto ben fatto, ma effettivamente quei tre pezzi di legno confrontati a vista con la enorme massa del reattore sovrastante (e di quel che c’era dentro) comunicavano una subdola impressione di infida fragilit , come tre grissini sotto l’insalatiera della Coppa Davis! Infatti Turco mi disse un po’ pensieroso: “Dutur, in minga un pu piscinin quei tri palett?”. Il suo dubbio era trasparente …(che peso effettivo dovevano reggere quando si svitava la flangia?). Feci mentalmente un calcolo della pressione idraulica che avrebbe gravato “sui palett”. Con un raggio di 20 centimetri della flangia, un battente di fluido di 3 metri (ma erano anche meno!) e un peso specifico di circa 1,3 non arrivi a 500 chili. Gli dissi “No Turco, stia tranquillo: vanno bene!” E lui ridendo, quasi a scusarsi: “No, perchè, Dutur, quel li (indicando il reattore) l’ minga vun di so balunin de veder! (quello non uno dei suoi palloncini da laboratorio!). Tenuto conto che io potevo avere la met dei suoi anni, ma anche tutta la responsabilit della operazione, il cauto e rispettoso messaggio della sua sottile ironia significava esattamente: “senti ragazzino, io ci credo che tu sai fare i calcoli, ma solo che l sopra ci sono otto tonnellate di roba che scotta e io sono l sotto che svito l’ultima vite!” “Vai tranquillo Turco!” Adesso, rassicurato: “…se lu el me dis de fal, el fu!” (se lei mi dice di farlo, lo faccio!) Si arrampic sugli scalini di ferro dell’impianto e svit tutte le viti, tranquillissimo… non si mosse nulla, i paletti non scricchiolarono neppure; scese dalla scaletta e mi mise in mano l’ultima vite che scottava ancora… non disse una parola ma il gesto voleva dire: “hai visto ragazzino… ce l’abbiamo fatta!” La resina era ormai a 200 gradi; grosse bolle smuovevano qua e l la massa gelatinosa e aprendo il boccaporto del coperchio non sentivo puzza di stirolo…buon segno. Staccai la corrente a tutto lo stabilimento, eccetto la pompa del pozzo. Quattro uomini sulla scala esterna, attaccati alla corda, erano pronti per lo strattone. Turco diede l’ordine “Vun… du… tri… hooop!” Bast il primo paletto… e accadde tutto… venne gi la flangia e il reattore scaric come un urto di vomito le sue aggrovigliate interiora fumanti e quindi pot essere lavato con soda caustica bollente; il pavimento venne poi martellato con tempo e con comodo… non ci furono incendi n infortuni e i “signori” venditori non subirono traumi sconvolgenti per mancate consegne (delirando in lacrime su mancate provvigioni)! Io e il Turco ci battemmo una mano sulla spalla… Non ci mettemmo neanche a correre per il prato strappandoci la maglietta, come fanno oggi isterici ragazzotti miliardari quando gli riesce di infilare quattrocento grammi di cuoio fra tre paletti di legno… Non so se vi giunga il messaggio del mio racconto… Il valore vero racchiuso in tutta questa operazione non averla eseguita… l’estrema fiducia che io avevo avuto nella sua professionalit e l’estrema fiducia che lui aveva avuto nella mia (per lui, quella di “un ragazzino”…) Ed questo atteggiamento fra gli uomini che costituisce la vera forza di un’azienda… PS. Turco non il vero nome, anche se verissimo il personaggio.
(*) – Non usate mai acqua nel caso di incendi di vernici o solventi: i solventi, pi leggeri dell’acqua, galleggiano sulla stessa, continuano a bruciare, e otterrete solo un dilagamento dell’incendio. Nel caso specifico la resina molto pi pesante dell’acqua e l’acqua stessa, galleggiando sulla resina, poteva costituire un ottimo manto protettivo.
Dr. Frank Peer Underall